Articolo da La Repubblica ( Antonella Di Bartolo )
In questo periodo di forzata sedentarietà, ma non di inoperosità, sentiamo rimbalzare in tv, nei social e anche dentro di noi una domanda ricorrente: cosa accadrà dopo che l’emergenza sanitaria sarà finita? Come cambierà il mondo? E noi? Avremo stabilito nuove priorità, ci ritroveremo più solidali o più cinici? Una cosa è certa: ci sarà da ricostruire. Tutto. L’epidemia da coronavirus sta modificando pesantemente non soltanto le nostre economie e abitudini, ma il nostro modo di essere. Dopo la prima guerra mondiale molti reduci erano “shell-shocked”; temo che dovremo affrontare tutti la realtà di tanti “virus-shocked”. Questo momento emergenziale sta mutando rapidamente anche il modo
di lavorare; finita la tempesta, dovremo vigilare affinché la modalità “smart working” non esiti in contratti di lavoro meno favorevoli per i lavoratori, e che multinazionali e grandi aziende non taglino sedi e stabilimenti, guardando al profitto senza pensare alla ricaduta sociale.
Mi auguro inoltre che la modalità “smart” non sia prevalentemente utilizzata dalle donne, magari per sopperire ai carenti servizi educativi per la prima infanzia, o di cura per la terza età. Le conseguenze potenzialmente negative sullo sviluppo professionale e sulla carriera delle donne e, dati alla mano, anche sul PIL, sarebbero inevitabili. Sì, e veniamo alla questione delle questioni: il coronavirus –paradossalmente- avrà le
conseguenze peggiori proprio su coloro che gli sono più resistenti: le donne. Osserviamo quanto è già avvenuto poche settimane fa: il governo ha sospeso le attività educative per la prima infanzia e la didattica in praesentia in tutte le scuole del paese, e cosa è avvenuto l’indomani? Le donne, ancor prima del lockdown imposto dal governo, si sono più o meno auto-collocate in “lavoro agile” (quanto sono belli gli eufemismi, all’italiana o all’inglese...) perché automaticamente su di loro è ricaduta la cura e l’accudimento dei figli, e spesso dei genitori anziani. E –per cortesia- non si replichi citando William Shakespeare, che scrisse delle opere memorabili durante l’imperversare della peste a Londra: nessun artista, nessuno scienziato si è mai dedicato al proprio talento coniugandolo con mansioni familiari. Nel lontano 1929 Virginia
Woolf parlava non a caso di “una stanza tutta per sé”, in riferimento a una ipotetica sorella del Bardo, parimenti dotata, ma destinata a nessuna fama. Il coronavirus non avrà effetti uguali su tutti: la pandemia ingigantirà le disparità esistenti e la crisi economica investirà pesantemente le fasce più deboli della popolazione e, soprattutto, riporterà la condizione femminile indietro di 50 anni! L’indipendenza delle donne sarà una vittima silente. Il genere della pandemia, ahimè, sarà femminile. Non in termini di morti, ma come costo sociale indiretto. Quando ripartirà quel poco di lavoro rimasto, se si dovrà scegliere, rimarrà a casa chi guadagna meno, chi, occupando posizioni meno apicali, avrà una remunerazione che a stento coprirebbe il costo del nido o il baby-sitting. Se una scelta andrà fatta, ricadrà negativamente sulla donna, con il risultato di una ulteriore marginalità e marginalizzazione nel mondo del lavoro. Ma tutto ciò –ad oggi- non è un processo ineludibile. E sarebbe antistorico, contrario agli obiettivi internazionali di sviluppo (obiettivo 5 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile!), autolesionista in termini di competività (PIL alla mano) e per ultimo, ma non meno importante, profondamente iniquo. E allora, se mi si chiedono #ideexdomani io senza incertezza rispondo: ripartiamo dalle donne, con le donne! Ripartiamo tutte (sperando di poter aggiungere a breve “tutti”) da una battaglia di civiltà, che veda le donne unite in una staffetta intergenerazionale: parità di rappresentanza nei ruoli decisionali, nei consigli di amministrazione come nelle Istituzioni e negli esecutivi. Quote di genere? Certamente, e senza esitazioni, senza sensi di colpa: non ci si deve mai vergognare di difendere cause giuste, benché odiose. A nessuno piace parlare di quote rosa, men che meno alle donne; tuttavia, finché la reale pari opportunità di incidere su scelte politiche e strategie per il futuro non sarà un fatto culturalmente acquisito e radicato, le quote di genere sono sacrosante.